Le isole Hawaii: sabbia bianca e fina, palme che si  protendono verso il mare, acqua cristallina, delfini in lontananza che cavalcano le onde… Un vero paradiso.

Peccato che a breve distanza ci sia l’inferno. Un’altra isola, grande quasi come il Texas, ma poco nota ai più: è la grande chiazza di immondizia del Pacifico.  In questa particolare area c’è un sistema lento di correnti oceaniche, detto “Vortice subtropicale del Nord del Pacifico”, che piano piano, a partire dagli anni ’50, ha trasportato la nostra immondizia, formando un vortice di spazzatura sempre più grande ed in costante crescita.

Se l’inizio della vita sulla Terra fu il “brodo primordiale” la fine potrebbe essere il “minestrone” galleggiante di plastica: secondo alcune stime,  potrebbero esserci, ben 100 milioni di tonnellate di rifiuti. Non bisogna pensare ad un mare di bidoni e bottiglie, ma ad  una zuppa di particelle dell’ordine del millimetro, che non solo galleggiano, ma che occupano uno spessore di 30 metri. Il Vortice di spazzatura fu scoperto nel 1997 da Charles Moore, un oceanografo le cui osservazioni si sommarono a quelle del biologo marino Richard Thompson. Thompson campionò sabbie provenienti da varie località, sabbie accomunate dall’essere composte per un buon 20% di plastica: ogni manciata ne conteneva almeno trenta granuli. Insieme al suo gruppo di studio, il biologo marino scoprì che non solo la quantità di plastica aumentava, ma le dimensioni dei rifiuti si facevano sempre più piccole, pericolosamente piccole!

Il Vortice di Plastica del Pacifico è alimentato per il 20% dagli scarti delle navi, ma il resto, l’80%, proviene direttamente dalla terra ferma. I rifiuti vengono sminuzzati dal moto ondoso e finiscono direttamente nella pancia degli animali marini: non solo tartarughe, ma anche zooplancton e così nell’intera rete alimentare. Il 95% delle carcasse animali trovate da Thompson aveva, in media, nello stomaco, quarantaquattro pezzi di plastica, vale a dire due o tre kili di rifiuti a persona.

In mare sono stati identificati nove tipi di plastica, tra cui: varietà di acrilico, nylon, poliestere, polietilene, polipropilene e polivinilcloruro.  Spesso la plastica la mandiamo direttamente in mare giù dal tubo del nostro bagno, infatti i prodotti esfolianti tanto alla moda, spesso non contengono ingredienti naturali, ma vere e proprie microsfere di polietilene, che, dopo aver levigato il nostro viso angelico, esfoliano anche lo stomaco delle foche.

Charles Moore navigò per un’intera settimana attraverso questa sorta di nuovo continente marino di tappi, tazzine, lenze, palloncini sgonfi, brandelli di pellicola trasparente, notando, nei corpi trasparenti delle meduse, pezzi di resina intrappolati, granuli millimetrici detti “nurdles” che sono alla base di tutti i prodotti di plastica di cui, ogni anno, vengono fabbricati circa cento miliardi di kili.

La plastica, come ogni idrocarburo, può biodegradarsi, ma molto lentamente, mentre si fotodegrada in un lasso di tempo significativo. In acqua la fotodegradazione impiega troppo tempo, non ci sono le temperature adatte, la giusta irradiazione. Le discariche non sono piene di plastica, come verrebbe da pensare, ma secondo gli studi dell’archeologo William Rathje, abbondano di carta e macerie. La plastica infatti finisce soprattutto in mare, a formare non solo il Vortice del Pacifico, ma altre sei isole sparse tra mari e oceani. Il Mediterraneo non è escluso. Nella parte occidentale, infatti, galleggiano 500 tonnellate di plastica, come è emerso dagli studi dell’Arpa toscana, a due passi da noi. Purtroppo nessuno sa dire esattamente cosa accadrà e in quali tempi.

Scrive  Alan Weisman autore de “Il mondo senza di noi”:

Cosa significava tutto questo per l’oceano, per l’ecosistema, per il futuro? Tutta quella plastica era apparsa in poco più di cinquant’anni. I costituenti e gli additivi chimici si sarebbero concentrati man mano che risalivano la catena alimentare, alterando l’evoluzione? O la plastica sarebbe durata abbastanza da fossilizzarsi? Forse fra milioni di anni i geologi avrebbero trovato membra di Barbie incastonate in conglomerati nei depositi sul fondo del mare? E sarebbero rimaste abbastanza intatte da poter essere riattaccate insieme come le ossa di un dinosauro? O si sarebbero decomposte prima, e per milioni di anni quello sconfinato cimitero di plastica sottomarina avrebbe trasudato idrocarburi, lasciando nella roccia le impronte fossilizzate di Barbie e Ken?”.

Ippolita Sanso

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